Intercultura |
La psicologia culturale nasce, agli albori della moderna psicologia scientifica, con W. Wundt, il fondatore nel 1879 del primo laboratorio di psicologia sperimentale, a Lipsia. Wundt riteneva che i processi mentali superiori, che egli chiamava «di alto livello», non potessero essere studiati in laboratorio, un ambiente che considerava adatto a indagare soltanto i processi psichici più elementari. Egli dedicò alla psicologia dei popoli (Völkerpsychologie) l'ultima fase della sua attività scientifica (1900-920). La psicologia dei popoli di Wundt mantiene un carattere fortemente speculativo: le caratteristiche dei popoli sono stabilite sulla base di studi condotti a tavolino, privi dei riscontri empirici forniti dalla ricerca sul campo, a cui erano proprio in quegli anni dedicati i maggiori sforzi di etnografi e antropologi. La prima importante iniziativa accademica di ricerca sul campo in cui sono manifesti interessi di psicologia culturale è la spedizione organizzata dall'Università di Cambridge nel 1895, in piena età coloniale, agli Stretti di Torres, che separano la Nuova Guinea dell'Australia. La cornice coloniale, e persino razzista, in cui si inscriveva la ricerca è evidente sia nell'obiettivo che nel lessico della spedizione: accertare se «le razze selvagge e semiselvagge possedessero un'acutezza di sensi maggiore di quella degli europei». La ricerca peraltro non confermò l'ipotesi che i «selvaggi» fossero più forti degli europei nelle capacità sensoriali, quasi a bilanciare le - ovvie, secondo gli scienziati dell'epoca - migliori capacità degli europei nelle attività intellettuali più elevate. Le relazioni di potere diseguale che plasmavano, in epoca coloniale, le relazioni tra i «popoli» europei e gli altri influenzavano in modo significativo gran parte dei processi di cui si occupava la psicologia sociale (si pensi allo studio del pregiudizio, tra cui quello razziale occupava un posto di primo piano), ma gli psicologi raramente sembravano accorgersi di operare in un contesto segnato da sistematiche diseguaglianze e da forme di oppressione di alcuni popoli su altri. Un filone di psicologia culturale che si pose in modo critico di fronte al contesto storico in cui si trovava a operare fu iniziato da L. Vygotskij. Il suo approccio allo studio dei processi culturali entrò presto in rotta di collisione con le dottrine di Stalin sul modo in cui dovevano essere considerate le popolazioni dell'Asia centrale, da poco annesse all'Impero russo, che il neonato Impero dei soviet voleva integrare senza residui nella nuova patria proletaria. Vygotskij cadde in disgrazia, e mori di tubercolosi ancora giovane, mentre la sua scuola venne dispersa. L'idea fondamentale della psicologia culturale come è intesa da Vygotskij, da M. Cole e dalla maggior parte degli psicologi culturali di oggi, è che la relazione che le persone hanno con l'ambiente è mediata dalla «cultura» e che questa è costituita da un sistema di «artefatti» che hanno, appunto, la funzione di collegare nel migliore dei modi le persone e l'ambiente sociale e fisico in cui esse vivono. Inizialmente, per artefatti si intendevano fondamentalmente degli oggetti fisici - quali le falci, i martelli, le seghe, i trattori - di cui le persone si servono nella loro attività lavorativa (non dimentichiamo che Vygotskij operava in un contesto ideologico che enfatizzava il lavoro fisico e che non era affatto tenero con le concezioni «idealiste» del pensiero e della conoscenza). In seguito, a partire dagli anni '70 del secolo scorso, ci si rese conto del fatto che gli strumenti fisici non erano comprensibili al di fuori dei progetti sociali che li avevano fatti nascere e che davano loro senso. Si incominciò allora a vedere, da un lato, ogni artefatto fisico come la realizzazione di un progetto sociale, e dall'altro ogni progetto sociale come capace di tradursi in oggetti e strumenti tangibili. Gli artefatti cessarono di essere degli strumenti solo fisici e incominciarono a essere visti come l'insieme degli strumenti, fisici e non, di cui ci serviamo per interagire con l'ambiente. Consideriamo un servizio da tavola in porcellana. Se non conoscessimo le regole che governano un pranzo in un dato ambiente sociale, non capiremmo perché i singoli pezzi siano quelli e non altri, perché essi siano fatti in un dato modo, perché il servizio nel suo insieme sia composto in quel certo modo. I vari piatti da portata, i piatti singoli fondi e piani, i numerosi tipi di bicchieri, cucchiai, coltelli e forchette incorporano in sé le regole che le persone devono seguire nella situazione sociale per cui il servizio da tavola è stato creato. Gli strumenti incorporano regole, e viceversa. Non si riesce a tenere separate le cose «fisiche» da quelle «non fisiche», se le si guarda da vicino. La forchetta individuale - un'invenzione italiana del '500, considerata all'inizio con sospetto dai forestieri che vedevano in essa un segno di eccessiva raffinatezza - impone ai commensali di non portare il cibo alla bocca con le mani: uno strumento che incarna una regola, e all'inverso una regola che si dota di uno strumento per poter essere applicata. Le persone entrano in relazione con l'ambiente non in astratto, ma nel concreto di sistemi di mediazione specifici, le «culture». Il bambino nasce in una famiglia che non è una famiglia in generale, ma è una famiglia specifica in cui i ruoli della mamma, del padre, dei nonni sono definiti in un certo modo e promuovono flussi di attività specifici. Un bambino che nasca in una famiglia di Viterbo si trova in un contesto differente da un bambino che nasca in Senegal. Le due mamme faranno cose diverse con i loro bambini: pensiamo al parto in ospedale, che sarà più spesso presente nell'esperienza della mamma di Viterbo, o all'allattamento al seno, che sarà invece più spesso presente nell'esperienza della mamma del Senegal, e a tutto il sistema di cure, di diete e di coccole che differenziano i due contesti. Siamo abituati a distinguere le condizioni economiche come fonti di differenze, e non stentiamo a comprendere in questo senso l'affermazione secondo cui le condizioni di un bambino che nasce sotto una tenda nel Sahel sono diverse da quelle di un bambino che nasce in un appartamento sul Central Park. Ma gli abitanti del Sahel differiscono da quelli di New York non solo per il reddito, ma per tutto il sistema di artefatti su cui sono innestati. E a questo sistema di artefatti che facciamo riferimento quando parliamo di «cultura». La cultura è vista dalla psicologia culturale come dispositivo di mediazione, come sistema di artefatti, come repertorio di risorse per l'azione, a cui le persone possono fare ricorso per muoversi nella loro vita quotidiana (Mantovani, 1998). Al centro della psicologia culturale, però, sta non la «cultura» intesa come una realtà a sé stante, bensì le persone con le loro specifiche storie, i loro differenti interessi, i loro scopi del momento. Il concetto centrale della psicologia culturale è quello di agency, un termine difficilmente traducibile, che significa che i veri attori, quelli che decidono sfanno le cose, sono le persone che utilizzano i repertori di conoscenze e di pratiche costituiti dalla loro «cultura» innovandoli, reinventandoli e contestandoli per rispondere alle richieste che provengono da ambienti in continuo cambiamento. Per la psicologia culturale, le differenze tra le persone non sono minimizzate ma esaltate. Le persone non sono cloni culturali: la cultura non è uno stampo che rende omogenei tra loro attori sociali diversi, ma è l'ambito in cui vengono alla luce le differenze tra le persone basate sulle peculiarità delle loro storie e sulla specificità delle loro risorse cognitive e pratiche. L'idea che la cultura operi come sistema di mediazione dell'esperienza permise a Cole e collaboratori (1971) di mostrare che i bambini Kpelle, una popolazione di coltivatori di riso della Liberia, incontravano difficoltà nell'apprendere l'aritmetica non perché fossero meno intelligenti dei loro coetanei di Chicago (ipotesi razzista), ma perché vivevano in un ambiente e frequentavano una scuola (sistema di mediazione) che forniva loro risorse cognitive e pratiche differenti da quelle che servivano per apprendere l'aritmetica che veniva insegnata alla scuola dei missionari. Secondo gli educatori, la lista di difficoltà dei bambini della tribù era assai lunga. Avevano difficoltà a distinguere fra forme geometriche perché, così dicevano, avevano gravi problemi percettivi. Questo faceva si che non potessero fare neppure semplici puzzle. Ritenevano anche gli africani incapaci di fare classificazioni; questi, quando dovevano scegliere tra il pensare e il ripetere a memoria, sceglievano sempre di ripetere a memoria. In realtà, non solo gli studenti dovevano recitare a memoria lunghi passi di poeti europei che non capivano, ma erano convintissimi che anche la matematica fosse una materia da imparare a memoria. La differenza non era nelle capacità intellettive dei bambini, ma fra i sistemi di mediazione in cui essi erano inseriti. La differenza stava nei contesti, non nelle capacità, cosa che non era chiara agli studiosi di ispirazione piagetiana, i quali confrontavano lo sviluppo intellettivo dei bambini di Ginevra con quelle dei bambini di Dakar e trovavano che questi ultimi arrivavano più tardi, e in modo meno sicuro, alle forme più astratte di intelligenza, ma non notavano che quelle forme di sapere astratto erano proprio quelle al cui sviluppo puntava il sistema scolastico ginevrino, e che invece non avevano spazio nella scuola e nelle pratiche di ogni giorno dei bambini di Dakar. L'idea stessa - anch'essa di origine piagetiana - che la capacità di astrazione costituisca il livello più alto dell'intelligenza umana esalta una forma di intelligenza che è familiare alle scuole e alle forme di pensiero occidentali, a detrimento di forme di intelligenza sviluppate da altre tradizioni scolastiche e intellettuali. Non stupisce che gli sviluppi recenti della scienza cognitiva abbiano contestato il privilegio conferito da J. Piaget alla conoscenza astratta: ciò che è più prezioso, nella conoscenza umana, è la capacità di unire azione e conoscenza intervenendo in modo appropriato nelle situazioni complesse (Clancey, 1997; Lave, 1988). Una tradizione di ricerca che, dopo le ricerche di Cole degli anni '70 e gli sviluppi recenti della psicologia culturale, non dovrebbe essere più confusa con la psicologia culturale, è quella della ricerca crossculturale. Tale ricerca utilizza categorie di analisi molto generali, quali quelle di «culture individualiste» occidentali, contrapposte a «culture collettiviste» asiatiche, e si aspetta che nelle condotte delle persone delle varie culture si manifestino i caratteri propri di quelle culture: proprio ciò che, come abbiamo visto a proposito della agency, la psicologia culturale esclude. Anche sul piano metodologico le differenze tra la ricerca crossculturale e la psicologia culturale sono nette. La ricerca crossculturale applica strumenti di indagine standardizzati - quali test e questionari - nei differenti ambienti che studia, supponendo che il significato delle prove dei test e delle domande dei questionari sia lo stesso nei differenti contesti. La psicologia culturale, invece, ritiene che non si possa pensare che, in culture realmente differenti, le domande dei questionari e le prove dei test abbiano lo stesso significato. Come si comprende, siamo ancora una volta di fronte alla situazione che Cole incontrò nel suo studio con i bambini Kpelle: non si può ignorare il ruolo del sistema di mediazione - scolastico e familiare - in cui i bambini sono immersi. Se consideriamo le culture come sistemi di mediazione, e se sappiamo che due culture sono differenti, dobbiamo aspettarci che i significati delle parole, delle azioni e delle situazioni possano essere differenti nei due contesti. Non potremo quindi applicare degli strumenti standard, ma dovremo adottare una strategia di ricerca di tipo etnografico, per far emergere le particolarità dei vari ambienti senza ridurli a un improbabile comun denominatore. Al contrario, la ricerca crossculturale opera confronti tra «culture» differenti usando strumenti standard e producendo risultati spesso problematici. Consideriamo, ad esempio, uno dei filoni più noti della ricerca crossculturale recente: la concezione del Sé nelle differenti culture. Un famoso studio di H. Markus e Sh. Kitayama (1991) contrappone il «Sé indipendente», che sarebbe coltivato negli Stati Uniti, al « Sé interdipendente», che sarebbe invece coltivato nelle società asiatiche, in particolare in Giappone. Confrontare tra loro ambienti come gli Stati Uniti e il Giappone come se si trattasse di realtà omogenee, stabili e separate dall'«esterno», anziché sistemi profondamente disomogenei, instabili e comunicanti con l'«esterno», non può che generare profonde perplessità: come è possibile, in un mondo sempre più globalmente connesso, supporre che interi paesi ospitino «culture» separate dal resto del mondo? E come è possibile pensare che - a causa della loro «cultura» - tutti quanti gli americani siano differenti dai giapponesi nel modo di concepire il Sé? La cultura non è un agente autonomo che governa le persone. Essa è solo un termine che usiamo per designare l'insieme degli artefatti usati in un certo ambiente - dal linguaggio alla scuola, dalla tecnologia alle regole di buona educazione. Se ci mettiamo a pensare alla cultura come a un agente a sé stante, riduciamo le persone a cloni culturali, a esseri privi di iniziativa nei confronti del loro ambiente e incapaci di una vera responsabilità personale - proprio ciò che abbiamo escluso quando abbiamo ricordato il ruolo essenziale della agency nella psicologia culturale. Pensare che gli americani e i giapponesi della ricerca di Markus e Kitayama siano due gruppi omogenei sulla base alla loro cultura significa non solo fare un uso reificato e scientificamente indifendibile del concetto di cultura, ma anche promuovere un uso abnorme di stereotipi, in questo caso nazionali, che è proprio ciò che gli psicologi dovrebbero evitare di fare, dato lo stretto legame che esiste tra stereotipi e pregiudizi. Una concezione della cultura che si sta recentemente affermando, nell'ambito degli studi sull'intercultura, è la concezione della cultura come narrazione condivisa, contestata e negoziata. Concepire la cultura come narrazione permette di comprendere i processi culturali come costruzioni storicamente situate, come l'insieme - spesso disomogeneo, oscuro e problematico - delle storie che un gruppo racconta di se stesso a sé e agli altri. Storie che sono continuamente riprese, riformulate, modificate per fare i conti con la loro intrinseca ambiguità e incoerenza. Qualsiasi visione delle culture come sistemi chiaramente delineati è una visione che viene dal di fuori e che genera coerenza a fini di comprensione e di controllo. Chi partecipa di una cultura sperimenta al contrario tradizioni, storie, rituali, simboli, strumenti e condizioni materiali di vita attraverso narrazioni condivise, ma anche contestate e contestabili. Dal suo interno, una cultura non si presenta come un insieme compatto ma come un orizzonte che recede via via che ci avviciniamo. Non è in questi termini che sperimentiamo la nostra appartenenza culturale? Non è per questo motivo che difficilmente ci riconosciamo in immagini stereotipate di noi stessi e dei nostri gruppi di riferimento, mentre non esitiamo a usare stereotipi estremamente generici e spesso anche denigratori per gli «altri»? Un importante vantaggio della concezione della cultura come narrazione è che essa permette di concepire gli spazi interculturali in cui avvengono i processi di globalizzazione e di contatto tra culture - di cui i processi migratori sono solo l'aspetto più evidente -come spazi di scambio, di negoziazione, di negoziazione a più voci, in cui una stessa pratica, uno stesso territorio, una stessa istituzione - come il matrimonio, la scuola o l'appartenenza religiosa - vengono declinati in molti modi. Uno spazio in cui, a rigor di termini, non si può più parlare di «noi» e di «loro» come entità distinte ma di «loro in mezzo a noi e noi in mezzo a loro» (Mantovani, 2004). Le metodologie di elezione per lo studio delle pratiche interculturali sono quelle di ispirazione etnografica, e in particolare le metodologie narrative: le narrazioni saranno considerate, nella ricerca interculturale, non solo per gli aspetti grazie a cui forniscono un accesso a spazi di condivisione (come avviene nelle memorie storiche codificate di particolari gruppi) ma anche, e soprattutto, per gli aspetti attraverso cui voci diverse (anche dissonanti da quelle dominanti) diventano udibili e capaci di attirare l'attenzione dell'ascoltatore. Una narrazione a più voci di una storia divergente, non limitata alle sue versioni coerenti, edificanti e autorizzate, è lo strumento adatto per studiare la cultura come narrazione condivisa, contestata e negoziata. La ricerca psicologica incontra su questi temi la prospettiva dell'« etica del discorso». Tutti possiamo dire che ci rispettiamo reciprocamente, ma non possiamo sapere che cosa questo rispetto richieda nei conflitti culturali che abbiamo di fronte. Mentre alcuni di noi possono considerare certe pratiche e certi giudizi come un affronto alla dignità umana, altri possono considerare le nostre valutazioni una specie di imperialismo etnocentrico. I discorsi pratici, nel senso più ampio, includono i discorsi morali sulle norme universali di giustizia, quelli etici sulle forme di una vita onesta, e quelli politico-pragmatici su ciò che si può fare in realtà. Si tratta di processi dialogici attraverso cui non solo concretizziamo e contestualizziamo il significato delle norme, ma determiniamo quale sia il problema in discussione. Molto spesso il dialogo morale è necessario per capire se un problema è di legislazione o di moralità, di estetica piuttosto che di politica. I partecipanti al dialogo non solo devono raggiungere la comprensione delle norme di cui si discute, ma devono anche condividere una comprensione situazionale delle applicazioni che esse dovrebbero avere. La comprensione delle situazioni si colloca al centro della ricerca sull'intercultura. Una psicologia attenta al significato delle situazioni si interrogherà su quale sia la situazione in cui si trova P«altro» che ci sta davanti, su quale sia la situazione in cui ci troviamo «noi» stessi, e sulle forme che assume il fatto che «loro» sono in mezzo a «noi» e «noi» in mezzo a «loro». GIUSEPPE MANTOVANI |